Giovanni Bellini
La tavola, risalente al periodo degli anni sessanta del Quattrocento, dimostra chiaramente l’indipendenza dell’artista dalla scuola di Andrea Mantegna, con cui aveva non solo affinità culturali ma anche legami di parentela stretti (essendo suo cognato).
L’influenza dell’artista padovano si può notare nell’energia delle linee di contorno e nella resa scultorea delle figure, che sembrano spingersi in primo piano e occupare lo spazio dell’osservatore. Tuttavia, Bellini ha racchiuso la scena in un’atmosfera di luce naturale, addolcendo le tonalità e concentrando l’attenzione non tanto sulla creazione di uno spazio prospettico rigoroso, quanto sulla rappresentazione della dolente umanità dei personaggi. In questo modo, l’artista crea un nuovo linguaggio che diventa, negli anni successivi, il suo stile personale e inconfondibile.
Il cartiglio fa riferimento alle parole del grande poeta Properzio, vissuto in epoca augustea, che descrive la capacità dell’immagine di suscitare emozioni intense nello spettatore. Questa opera d’arte è tra quelle che riescono a provocare tale effetto.
“Haec fere quum gemitus turgentia lumina promant/Bellini poterat ionnis opus” ovvero “Questi occhi gonfi quasi emetteranno gemiti, quest’opera di Giovanni Bellini potrà spargere lacrime”.
Maria sorregge il corpo martoriato di Cristo con la stessa tenerezza con cui lo cullava da bambino. La scena è intrisa di dolore: il calore delle mani dei vivi contrasta con il pallore della morte e il gemito di Giovanni, che voltandosi sottolinea il dolore. Ma la scena mette in evidenza anche il legame tra madre e figlio. La vicinanza dei volti, naso contro naso, bocca vicina alla bocca dell’altro, rivela una straordinaria somiglianza fisica e fa sì che questo atto estremo di maternitá sia insieme umano e divino.
Sarah Dunant
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