RINASCIMENTO: Santa Pasqua e storie d’autore

Artrove ETS è lieta di presentare la 1ª mostra itinerante volta alla valorizzazione e promozione del patrimonio artistico italiano. Le opere che vedrete sono esposte in alcuni dei più famosi musei, si italiani, ma di fama mondiale. Nulla è lasciato al caso; abbiam deciso di costruire, anzi, allestire un’altalena di emozioni che speriamo vi lasci un segno come l’ultima pennellata di un capolavoro. Buon divertimento, buona visione ed emozionatevi.

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1

Pietà

Giovanni Bellini

Pietà

Il nostro percorso inizia da una delle opere più commoventi della storia dell’arte.

La minuziosità che il Bellini dedica ad ogni dettaglio è sbalorditiva, dai capelli di san Giovanni, dipinti uno ad uno, fino alla goccia di sangue sul braccio sinistro di Cristo che quasi possiamo vedere muoversi mentre risale fino al gomito.

Fate attenzione a non oltrepassare la balaustra dove il pugno di Cristo si infrange, proprio quella balaustra dove è posto il cartiglio e che quasi ci invita a non essere indiscreti e a non invadere il loro spazio.

Notate il cielo, infinito, contro il quale vengono poste le tre figure e ancora, il paesaggio, che vuol riportarci in una dimensione terrena, finita… ma non prendiamoci in giro.

Potrei chiedervi di prestare attenzione a qualsiasi altro dettaglio, ma so bene che il vostro sguardo non può far a meno di finire proprio lì, lì dove i due volti si incontrano e dove ogni altra cosa scompare nel nulla.

Non possiamo fare a meno di perderci nello sguardo di quella madre disperata che ancora non si è rassegnata e cerca invano un ultimo cenno di vita, un ultimo sospiro, anelato ma deluso.

Agli occhi di questa madre il figlio, ormai grande e meraviglioso, sarà sempre un bambino, voltatevi alla vostra sinistra e lo vedrete bene, sarà sempre quel bambino che teneva stretto in braccio, tra le sue mani che credeva sicure e che ora altro non posson fare che sorreggerlo, lì davanti a noi, per un’ultima volta.

2

Ultima cena

Tiziano Vecellio

Ultima cena

Osservate bene le quattro scene che vi trovate ai lati: sono disposte a specchio, quasi a voler creare una sorta di connessione temporale, ma procediamo con ordine.

Da un lato troviamo L’ultima Cena e la Resurrezione di Cristo di Tiziano, due opere dalle stesse dimensioni ed il motivo è presto detto: in origine entrambe le tele costituivano uno stendardo processionale commissionato a Tiziano dalla Confraternita del Corpus Domini di Urbino; queste opere verranno poi separate dal pittore Pietro Viti per essere sistemate ai lati dell’altare maggiore della chiesa della Confraternita e a tale Pietro dobbiamo anche il fregio a motivi floreali su fondo oro dipinto su entrambe le tele.

Dall’altro lato invece abbiamo la Crocifissione e la Discesa dello Spirito Santo di Luca Signorelli; anche qui le due opere hanno le stesse dimensioni, indovinate un po’ il perché; stessa sorte delle prime due tele, costituivano in origine un gonfalone commissionato a Luca Signorelli dal pittore di maioliche Filippo Gueroli, su incarico della confraternita dello Spirito Santo di Urbino.

Ho scelto di disporre così queste opere per vivere a pieno gli ultimi momenti della vita di Cristo, partendo dall’Ultima Cena, dove tra le concitate gestualità degli apostoli risalta la figura del Cristo benedicente, quasi a bilanciare l’atmosfera.

Alla fine della cena, poco più tardi, Gesù verrà arrestato e condotto dinanzi a Ponzio Pilato prima di essere crocifisso, come ci racconta il Signorelli sulla parete opposta, con questa croce imponente che domina l’intera scena e si staglia contro il cielo.

Voltandoci nuovamente verso la parete dedicata a Tiziano, assistiamo ora all’evento miracoloso per eccellenza: la Resurrezione di Cristo, dove nella zona inferiore si nota una grande inquietudine nella scena dei soldati e del sarcofago, realizzata con rette oblique e spezzate che conferiscono movimento e drammaticità all’insieme. Al contrario, nella parte superiore, tutto è calmo e sereno e il Cristo benedicente si libra sul cielo all’alba, con sembianze statuarie e apollinee.

Il cerchio si chiude con la Discesa dello Spirito Santo, a ricordarci la Pentecoste, che cade cinquanta giorni dopo la Pasqua, nel greco “Pentecoste” significa 50ª giornata.

“Mentre stava per compiersi il giorno di Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano.

Apparvero loro lingue di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi”.

3

Resurrezione di Cristo

Tiziano Vecellio

Resurrezione di Cristo

Osservate bene le quattro scene che vi trovate ai lati: sono disposte a specchio, quasi a voler creare una sorta di connessione temporale, ma procediamo con ordine.

Da un lato troviamo L’ultima Cena e la Resurrezione di Cristo di Tiziano, due opere dalle stesse dimensioni ed il motivo è presto detto: in origine entrambe le tele costituivano uno stendardo processionale commissionato a Tiziano dalla Confraternita del Corpus Domini di Urbino; queste opere verranno poi separate dal pittore Pietro Viti per essere sistemate ai lati dell’altare maggiore della chiesa della Confraternita e a tale Pietro dobbiamo anche il fregio a motivi floreali su fondo oro dipinto su entrambe le tele.

Dall’altro lato invece abbiamo la Crocifissione e la Discesa dello Spirito Santo di Luca Signorelli; anche qui le due opere hanno le stesse dimensioni, indovinate un po’ il perché; stessa sorte delle prime due tele, costituivano in origine un gonfalone commissionato a Luca Signorelli dal pittore di maioliche Filippo Gueroli, su incarico della confraternita dello Spirito Santo di Urbino.

Ho scelto di disporre così queste opere per vivere a pieno gli ultimi momenti della vita di Cristo, partendo dall’Ultima Cena, dove tra le concitate gestualità degli apostoli risalta la figura del Cristo benedicente, quasi a bilanciare l’atmosfera.

Alla fine della cena, poco più tardi, Gesù verrà arrestato e condotto dinanzi a Ponzio Pilato prima di essere crocifisso, come ci racconta il Signorelli sulla parete opposta, con questa croce imponente che domina l’intera scena e si staglia contro il cielo.

Voltandoci nuovamente verso la parete dedicata a Tiziano, assistiamo ora all’evento miracoloso per eccellenza: la Resurrezione di Cristo, dove nella zona inferiore si nota una grande inquietudine nella scena dei soldati e del sarcofago, realizzata con rette oblique e spezzate che conferiscono movimento e drammaticità all’insieme. Al contrario, nella parte superiore, tutto è calmo e sereno e il Cristo benedicente si libra sul cielo all’alba, con sembianze statuarie e apollinee.

Il cerchio si chiude con la Discesa dello Spirito Santo, a ricordarci la Pentecoste, che cade cinquanta giorni dopo la Pasqua, nel greco “Pentecoste” significa 50ª giornata.

“Mentre stava per compiersi il giorno di Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano.

Apparvero loro lingue di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi”.

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Crocifissione

Luca Signorelli

Crocifissione

Osservate bene le quattro scene che vi trovate ai lati: sono disposte a specchio, quasi a voler creare una sorta di connessione temporale, ma procediamo con ordine.

Da un lato troviamo L’ultima Cena e la Resurrezione di Cristo di Tiziano, due opere dalle stesse dimensioni ed il motivo è presto detto: in origine entrambe le tele costituivano uno stendardo processionale commissionato a Tiziano dalla Confraternita del Corpus Domini di Urbino; queste opere verranno poi separate dal pittore Pietro Viti per essere sistemate ai lati dell’altare maggiore della chiesa della Confraternita e a tale Pietro dobbiamo anche il fregio a motivi floreali su fondo oro dipinto su entrambe le tele.

Dall’altro lato invece abbiamo la Crocifissione e la Discesa dello Spirito Santo di Luca Signorelli; anche qui le due opere hanno le stesse dimensioni, indovinate un po’ il perché; stessa sorte delle prime due tele, costituivano in origine un gonfalone commissionato a Luca Signorelli dal pittore di maioliche Filippo Gueroli, su incarico della confraternita dello Spirito Santo di Urbino.

Ho scelto di disporre così queste opere per vivere a pieno gli ultimi momenti della vita di Cristo, partendo dall’Ultima Cena, dove tra le concitate gestualità degli apostoli risalta la figura del Cristo benedicente, quasi a bilanciare l’atmosfera.

Alla fine della cena, poco più tardi, Gesù verrà arrestato e condotto dinanzi a Ponzio Pilato prima di essere crocifisso, come ci racconta il Signorelli sulla parete opposta, con questa croce imponente che domina l’intera scena e si staglia contro il cielo.

Voltandoci nuovamente verso la parete dedicata a Tiziano, assistiamo ora all’evento miracoloso per eccellenza: la Resurrezione di Cristo, dove nella zona inferiore si nota una grande inquietudine nella scena dei soldati e del sarcofago, realizzata con rette oblique e spezzate che conferiscono movimento e drammaticità all’insieme. Al contrario, nella parte superiore, tutto è calmo e sereno e il Cristo benedicente si libra sul cielo all’alba, con sembianze statuarie e apollinee.

Il cerchio si chiude con la Discesa dello Spirito Santo, a ricordarci la Pentecoste, che cade cinquanta giorni dopo la Pasqua, nel greco “Pentecoste” significa 50ª giornata.

“Mentre stava per compiersi il giorno di Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano.

Apparvero loro lingue di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi”.

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Discesa dello Spirito Santo

Luca Signorelli

Discesa dello Spirito Santo

Osservate bene le quattro scene che vi trovate ai lati: sono disposte a specchio, quasi a voler creare una sorta di connessione temporale, ma procediamo con ordine.

Da un lato troviamo L’ultima Cena e la Resurrezione di Cristo di Tiziano, due opere dalle stesse dimensioni ed il motivo è presto detto: in origine entrambe le tele costituivano uno stendardo processionale commissionato a Tiziano dalla Confraternita del Corpus Domini di Urbino; queste opere verranno poi separate dal pittore Pietro Viti per essere sistemate ai lati dell’altare maggiore della chiesa della Confraternita e a tale Pietro dobbiamo anche il fregio a motivi floreali su fondo oro dipinto su entrambe le tele.

Dall’altro lato invece abbiamo la Crocifissione e la Discesa dello Spirito Santo di Luca Signorelli; anche qui le due opere hanno le stesse dimensioni, indovinate un po’ il perché; stessa sorte delle prime due tele, costituivano in origine un gonfalone commissionato a Luca Signorelli dal pittore di maioliche Filippo Gueroli, su incarico della confraternita dello Spirito Santo di Urbino.

Ho scelto di disporre così queste opere per vivere a pieno gli ultimi momenti della vita di Cristo, partendo dall’Ultima Cena, dove tra le concitate gestualità degli apostoli risalta la figura del Cristo benedicente, quasi a bilanciare l’atmosfera.

Alla fine della cena, poco più tardi, Gesù verrà arrestato e condotto dinanzi a Ponzio Pilato prima di essere crocifisso, come ci racconta il Signorelli sulla parete opposta, con questa croce imponente che domina l’intera scena e si staglia contro il cielo.

Voltandoci nuovamente verso la parete dedicata a Tiziano, assistiamo ora all’evento miracoloso per eccellenza: la Resurrezione di Cristo, dove nella zona inferiore si nota una grande inquietudine nella scena dei soldati e del sarcofago, realizzata con rette oblique e spezzate che conferiscono movimento e drammaticità all’insieme. Al contrario, nella parte superiore, tutto è calmo e sereno e il Cristo benedicente si libra sul cielo all’alba, con sembianze statuarie e apollinee.

Il cerchio si chiude con la Discesa dello Spirito Santo, a ricordarci la Pentecoste, che cade cinquanta giorni dopo la Pasqua, nel greco “Pentecoste” significa 50ª giornata.

“Mentre stava per compiersi il giorno di Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. Venne all’improvviso dal cielo un rombo, come di vento che si abbatte gagliardo e riempì tutta la casa dove si trovavano.

Apparvero loro lingue di fuoco, che si dividevano e si posarono su ciascuno di loro; ed essi furono tutti pieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, come lo Spirito dava loro di esprimersi”.

6

Flagellazione di Cristo

Piero della Francesca

Flagellazione di Cristo

Tra l’Ultima Cena e la Crocifissione di Gesù Cristo c’è un avvenimento che ha suscitato non poco interesse nel mondo dell’arte: sto parlando della Flagellazione di Cristo.

Secondo i vangeli canonici, Gesù fu sottoposto al supplizio della flagellazione durante il processo celebrato dal procuratore romano Ponzio Pilato.

Secondo il resoconto di Giovanni, Pilato fece flagellare Gesù per dare soddisfazione ai notabili ebrei che lo accusavano e sedare il disordine che essi avevano sollevato nonché per impietosire il popolo giudaico, ma questi non si accontentarono e la folla, da essi sobillata, continuò a chiedere a gran voce la sua condanna a morte, che Pilato infine concesse.

L’opera più famosa ed enigmatica a tal proposito è proprio la “Flagellazione di Cristo” di Piero della Francesca, opera che ha costituito e continua a costituire uno degli enigmi più avvincenti della storia dell’arte.

A primo impatto, il dipinto par essere un’opera religiosa, eppure c’è qualcosa che non torna, e no, non sono i calcoli matematici di Piero.

In un’opera intitolata “Flagellazione di Cristo”, ci si aspetterebbe una centralità della figura di Cristo sia fisica che simbolica, cosa che qui viene meno.

Tante sono le interpretazioni date, ma la più attendibile è quella secondo cui il dipinto sarebbe in realtà un’allegoria della Chiesa tribolata dai Turchi, con un chiaro riferimento alla presa di Costantinopoli, avvenuta otto anni prima della realizzazione del dipinto, nel 1453.

È stato osservato, a sostegno di questa ipotesi, che la colonna alla quale è legato Cristo è sormontata dalla statua classica di un uomo che sorregge un globo; si sa che un monumento simile era stato eretto in onore di Costantino nell’appena rifondata Costantinopoli.

Ponzio Pilato, che assiste impotente alla tortura, sarebbe in realtà l’imperatore di Bisanzio Giovanni VIII. I flagellatori sarebbero gli infedeli, e in effetti, prestando ben attenzione, sia gli atteggiamenti sia le fisionomie rimandano alle figure dei pirati turchi e mongoli.

Il personaggio di spalle sarebbe invece il sultano Maometto II che intendeva insediarsi sul trono di Bisanzio: possiamo notare infatti che egli è a piedi scalzi, mentre è Giovanni VIII a indossare i purpurei calzari imperiali, che solo gli imperatori bizantini potevano portare.

I tre uomini in primo piano sarebbero invece, da sinistra: il cardinale Bessarione, ossia il delegato bizantino che molto si adoperò durante il Concilio di Ferrara e Firenze del 1438-39, nella speranza di ottenere l’aiuto occidentale contro gli Ottomani e di scongiurare la caduta di Costantinopoli; Tommaso Paleologo, pretendente senza speranza al trono di Bisanzio (e difatti anch’egli è scalzo); infine, Niccolò III d’Este, il quale ospitò parte del Concilio a Ferrara. L’interpretazione sarà pur vaga e dibattuta, ma il valore di tal opera non è oggetto a discussione alcuna; come disse Bernard Berenson, storico dell’arte statunitense: “… non esiste Flagellazione più emozionante della sua, quantunque su nessun volto si scorga un’espressione in rapporto con l’avvenimento; anzi, quasi a rendere il fatto più severamente impersonale, Piero introdusse nel meraviglioso dipinto tre maestose figure in primo piano, impassibili come macigni”.

 

7

Flagellazione

Luca Signorelli

Flagellazione

A differenza di quanto visto prima, stavolta l’apparenza non ci inganna;

la flagellazione di Cristo che si sta compiendo dinanzi ai nostri occhi questa volta non vuol lasciar intendere nulla, nessun messaggio criptico o vaga interpretazione.

Immaginate di essere seduti su delle comode poltrone nel vostro teatro preferito, le luci si abbassano, cala il silenzio; si apre il sipario e gli attori prendono posto sul palcoscenico.

Alla regia Luca Signorelli, perché sì, è proprio questo il suo scopo: dare spettacolo!

E poco importa se il suo maestro è stato proprio Piero della Francesca, quel Piero che ha realizzato la stessa scena in modo completamente diverso, più geometrico, più equilibrato, più armonioso… un bravo allievo fa propri gli insegnamenti dei più grandi per poi reinterpretarli a suo modo, questo è imparare!

Tanti personaggi posti in una sorta di “ordine disordinato” (concedetemi il gioco di parole); notate le schiene inarcate dei due flagellanti, la minuzia che dedica all’anatomia di ogni personaggio, l’espressione di Cristo, impassibile, eppur così toccante, che va incontro al suo destino.

Il Signorelli si fa portavoce di un malessere, un malessere artistico, che inizia a storcere il naso nei confronti delle regole e degli schemi del primo Rinascimento.

8

Cristo alla colonna

Donato Bramante (Donato di Pascuccio)

Cristo alla colonna

Parlando di flagellazione, abbiamo visto fin ora due opere molto diverse tra di loro, eppure un elemento comune non può non balzare subito ai nostri occhi; sto parlando della figura di Cristo e più precisamente non del come, bensì del dove viene collocata.

Una colonna solida è sempre presente in questo tipo di raffigurazioni e ci ha pensato il Bramante a darci modo di focalizzare tutta la nostra attenzione su questo dettaglio, ma non finisce qui.

Donato Bramante a mio avviso riesce ad esprimere e a farci vivere tutta la drammaticità legata all’evento della flagellazione ancor prima che questa si realizzi, ancor prima dell’arrivo dei flagellatori, quando il dolore è solo pensato e non ancora compiuto.

Dinanzi a noi abbiamo un Cristo che si spoglia del suo lato sacro per lasciar spazio all’uomo, e come uomo, dietro ad una maschera fatta di apparente tranquillità, non può far altro che lasciar trapelare una profonda angoscia.

Luci ed ombre qui hanno una valenza simbolica, segnano il passaggio che Cristo deve compiere attraverso l’oscurità per arrivare alla luce, alla salvezza.

Osservate la bocca semi aperta, sembra quasi che voglia sussurrarvi qualcosa, ma su questo non posso dir più nulla, non posso aiutarvi.

Ora non mi rivolgo più a tutti quelli che stanno ascoltando, mi rivolgo solo a te, per invitarti a indugiare.

Sei solo dinanzi a Lui, è un incontro individuale, solo Voi due e nessun altro sarete testimoni di questo dialogo così intimo. E no, non lasciarti intimorire dal Suo sguardo, non è rancore, è una pietà luminosa, perché sa che il disegno del Padre Suo si deve compiere. E quindi si lascia percuotere, torturare, uccidere.

9

Deposizione di Cristo nel sepolcro

Lorenzo Lotto

Deposizione di Cristo nel sepolcro

La sofferenza di Cristo giunge finalmente al termine, non però quella di tutti coloro che gli sono stati vicino durante la sua vita; di questo ce ne parla Lorenzo Lotto raccontandoci, più nello specifico, la deposizione di Cristo nel sepolcro.

Dalla Madonna svenuta fino a Maria Maddalena, prostrata, che con i cappelli accarezza la mano abbandonata del martire, la scena descritta è carica di pathos.

C’è però, tra tutti i presenti alla deposizione, un personaggio che merita una particolare menzione: sto parlando di Giuseppe di Arimatea, che qui vediamo intento a deporre il corpo nel sepolcro mentre con la mano accarezza il torace senza vita di Cristo.

Pensate un po’, il sepolcro di Gesù era un sepolcro nuovo e apparteneva proprio a tale Giuseppe di Arimatea. Andò personalmente da Ponzio Pilato per chiedere il corpo di Cristo, lo depose dalla croce, lo unse con oli aromatici e lo seppellì in un sepolcro di sua proprietà, scavato nella roccia.

Probabilmente Giuseppe è uno dei pochi a toccare il corpo di Gesù morto; seppellire i morti è un’opera di misericordia e in questo momento Giuseppe diede prova del suo grande amore e della sua grande cura verso il figlio di Dio.

Il patriarca Bartolomeo I scrisse in una preghiera, riferendosi alla deposizione di Gesù: “Un Giuseppe ti ha protetto quando eri bambino, un altro Giuseppe ti schioda dolcemente dalla croce. Nelle sue mani tu sei più abbandonato di un bimbo nelle mani della madre. Egli depone nel grembo della roccia la reliquia del tuo corpo immacolato”.

10

Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti

Andrea Mantegna

Cristo morto nel sepolcro e tre dolenti

Questa è probabilmente una delle opere più conosciute non solo del Mantegna, ma di tutta la storia dell’arte.

Schemi e regole che normano la prospettiva interessano ben poco al nostro artista, vuole che sia la dura realtà a prevalere su ogni altro elemento e quindi no, stavolta non si fanno sconti sull’immagine di Cristo, stavolta non c’è nessuna possibilità di resurrezione, c’è solo tanto dolore.

Possiamo quasi avvertire lungo la nostra schiena quanto sia fredda quella lastra su cui si poggia il cadavere martoriato di Cristo.

Ricordate la prima opera che abbiamo visto insieme? La Pietà del Bellini. Lì è presente una balaustra che ci invita a non superare un determinato limite e lasciare i personaggi tranquilli nel loro dolore;

qui non serve nemmeno quella, dinanzi a questo Cristo di scorcio siamo noi a fare un passo indietro, l’umanità del Mantegna è tutta qui, dinanzi ai nostri occhi, ha aperto il suo cuore mostrando i suoi sentimenti, la sua umanità, cosa che non avrebbe neanche voluto fare in realtà. È un’opera ad uso personale questa, è sempre stata nel suo studio… d’altronde, come avrebbe potuto lasciarlo andare?

11

Resurrezione di Cristo

Andrea Mantegna

Resurrezione di Cristo

Un evento miracoloso si sta compiendo! Le prime luci dell’alba illuminano il cielo, le nubi si diradano… In un paesaggio roccioso, Gesù Cristo esce dal sepolcro trionfante: ha vinto la morte, è risorto. Un forte vento gonfia il drappo bianco del Redentore che, reggendosi al vessillo, scavalca la sua lastra tombale. Ai suoi piedi si trovano alcuni soldati di guardia: sono atterriti dallo sconcerto e meravigliati per la scena stupefacente a cui stanno assistendo. Uno di loro si desta dal sonno e porta una mano verso la fronte per ripararsi dal bagliore sprigionato da Cristo. In mezzo alle guardie è presente anche un personaggio barbuto vestito di nero, probabilmente uno degli anziani di veglia al sepolcro.

12

Pietà

Lorenzo Lotto

Pietà

Il percorso dedicato alla santa Pasqua è iniziato con la Pietà e termina, per l’appunto, con la Pietà, stavolta di Lorenzo Lotto

Quest’opera vuol rappresentare sì la morte di Cristo e il dolore della Vergine, ma contiene un messaggio che va ben oltre la rappresentazione;

quest’opera è una presa di posizione, è un manifesto, è un togliersi qualche sassolino dalla scarpa da parte dei domenicani nei confronti dei francescani.

Mi spiego meglio: secondo i francescani, Maria sotto la croce subiva una morte spirituale come la morte fisica di Cristo e così, da “tramortita”, veniva dipinta.

Per i domenicani invece, avendo Maria la prescienza della resurrezione del figlio, sopportava con composto stoicismo il dolore della morte apparente.

Ma non è finita qui; e se vi dicessi che per la prima volta, ad una rappresentazione sacra, viene legato il tema della chiromanzia?

Specifichiamo però che prima che la chiromanzia diventasse una pratica considerata dalla chiesa superstizione e sacrilega magia, la lettura della mano aveva una sua sacralità.

Osservate bene la mano sinistra di Maria e l’angioletto posto a destra, con le sopracciglia aggrottate, cosa sta facendo?

Sta leggendo la mano della Vergine, ne sta scrutando le linee, linee che noi vediamo nello scorcio.

La visione domenicana è qui, Maria è sede della sapienza e dunque preveggente.

A Lei non serviva leggersi la mano, ma a noi serve leggere la Sua, così come ci insegna l’angelo ed è proprio quest’ultimo che ci porta a notare la lunga linea della vita sulla mano della Vergine.

13

Orfeo ed Euridice

Tiziano Vecellio

Orfeo ed Euridice

Quello rappresentato da Tiziano su questa piccola tavola è forse uno dei miti più conosciuti in assoluto, che vede protagonisti il cantore Orfeo, figlio di Apollo, capace di incantare ogni creatura con la sua lira, e la ninfa Euridice;

se siete degli inguaribili romantici, già conoscete la storia e volete preservare l’ideale di amore incondizionato e pronto a tutto legato a questo mito, vi consiglio caldamente di non ascoltare oltre.

Riassumendo brevemente la storia, l’amore tra i due era stupendo, però non era destinato a durare a lungo: il pastore Aristèo si innamorò infatti della ninfa: nel tentativo di fuggire da lui la ragazza corse nel bosco e un serpente la morse, provocandone la morte e la conseguente disperazione di Orfeo.

Il giovane però non si diede per vinto e per riavere indietro la sua sposa decise di mettersi in viaggio verso l’Ade dove fu costretto ad affrontare mille peripezie, tutte superate grazie alla sua lira.

Ottenne così di poter riportare indietro con sé Euridice, ma ad una condizione: non voltarsi mai indietro fino a che la luce del sole non avrebbe ricoperto totalmente la sua amata. Potete immaginare come andò a finire: un attimo prima di raggiungere il regno dei vivi, la condizione venne violata ed Euridice inghiottita, stavolta per sempre, nel regno dei morti. Il mito di Orfeo avrebbe narrato ancora molte vicende, ma nessuna avrebbe più previsto la presenza di Euridice.

Il giovane, quindi, perdutamente innamorato che addirittura va a riprendersi la sua amata nel regno degli inferi, salvo poi essere beffato da un impeto d’amore, tradendo l’accordo pattuito; questa versione dei fatti ha convinto quasi tutti, tranne una persona: Cesare Pavese, che nel dialogo de “L’inconsolabile” riporta il mito di Orfeo ed Euridice, rovesciandolo; Orfeo non si sarebbe recato nell’aldilà per ritrovare la sua amata, tutt’altro: vi si è recato per ritrovare se stesso e il voltarsi non è stato affatto un errore: Orfeo ha scelto di voltarsi.

Nel dialogo di Pavese, il giovane esplicita chiaramente la sua volontà di andare avanti e chiudere i conti con il passato dicendo: “Euridice morendo divenne altra cosa”.

È qui la presa di coscienza, è qui che Orfeo non lascia nulla al caso e diventa padrone del suo destino, è qui che prende atto della morte di Euridice che potrà continuare a vivere, si, ma solo nei suoi ricordi poiché il suo tempo nel regno dei vivi si è concluso: ora appartiene alla morte.

“Quando mi giunse il primo barlume di cielo, trasalii come un ragazzo, felice e incredulo, trasalii per me solo, per il mondo dei vivi. La stagione che avevo cercato era là in quel barlume. Non m’importò nulla di lei che mi seguiva. Il mio passato fu il chiarore, fu il canto e il mattino. E mi voltai.”

14

Marte e Venere con Cupido

Paolo Veronese (Paolo Caliari)

Marte e Venere con Cupido

Chi di voi non ha mai avuto a che fare, almeno una volta nella vita, con un impiccione?

Ma si, un po’ come quelle signore anziane che passano l’intera giornata alla finestra a guardare tutto quello che succede con molto interesse (forse anche troppo).

Paolo Veronese ci ha appena elevato al grado di… ficcanaso.

Si lo so, non è proprio il massimo, ma l’unico modo che abbiamo per capire cosa sta succedendo è aprire questa finestra.

Aspettate un attimo, ma quella è Venere!

E quello di spalle non mi sembra proprio essere Vulcano, suo marito.

Ma si, quello è Marte!

Stiamo assistendo all’incontro segreto di due amanti e questa è senza alcun dubbio la cosa più normale, perché posando il nostro sguardo leggermente oltre non si può far a meno di notare, sì il piccolo Cupido, ma un cavallo?

Che cosa significa quel cavallo?

Cupido fa capolino nella stanza portando con sé l’animale forse con l’intento di richiamare Marte ai suoi compiti di guerra e lasciar perdere così gli effimeri piaceri dell’amore, o forse, la presenza dello stallone altro non vuol sottolineare che” la virtù meno apparente, tra tutte le virtù la più indecente” di Marte, citando Fabrizio de André.

Insomma, sbizzarritevi pure, non esistono risposte sbagliate.

15

Assunzione della Vergine

Lorenzo Lotto

Assunzione della Vergine

Non vorrei risultare blasfemo, ci mancherebbe altro, ma la sacralità della scena qui è relegata in secondo piano per non dire che è quasi assente; d’altronde, da Lorenzo Lotto ci si deve aspettare questo e altro.

Deride, osa, punge, indaga, ironizza, allude e illude, la sua creatività non conosce limiti e lui non si fa di certo il problema a porsene

In questo caso, ad esempio, l’attenzione sta più nell’enfatizzare lo stupore degli apostoli che nella scena miracolosa.

E quindi via, si parte dal santo che, vuoi la vecchiaia, vuoi l’incredulità, inforca gli occhiali per vedere se la Vergine Maria sia davvero ascesa al cielo, non si sa mai.

Oppure, ancora (anche se non proprio originale), l’apostolo ritardatario che tra le colline corre a più non posso, un po’ come quell’amico dai famosi “5 minuti e arrivo”.

La scena degli apostoli che si sbracciano per salutare la Vergine Maria che s’innalza verso l’alto dei cieli non vi ricorda un po’ quei saluti che i parenti rivolgono ai piedi di un treno a chi parte per andare lontano da casa?

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Madonna col Bambino, san Giovannino, santa Caterina d'Alessandria e altri santi

Andrea Mantegna

Madonna col Bambino, san Giovannino, santa Caterina d’Alessandria e altri santi

Sono stato al matrimonio di mia cugina a fine aprile del 2022, una bellissima cerimonia, una bellissima giornata. Ora, la mia famiglia è veramente numerosa e, dopo esser riusciti a radunarci tutti nel giardino, il fotografo ha deciso di voler fare uno scatto con tutti i membri, ma tutti eh, nessuno escluso.

Nella mia testa (molto leggera in quel momento, devo ammetterlo) riuscivo a pensare ad una sola cosa: riuscirà davvero a farci venire tutti? Insomma, siamo più di ottanta persone! Tra un “stringetevi un po’” e un “vieni più qui” alla fine è riuscito nella sua impresa.

Perché vi ho raccontato questa storia?

Perché io il Mantegna me lo immagino esattamente così, come quel fotografo al matrimonio.

In questa tavola l’artista riesce a far stringere tutti i santi, a farli venire un po’ più qui e un po’ più in là, senza però rinunciare alla cura dei dettagli per ognuno dei presenti, anche se non credo avesse molta scelta: il pericolo di un “non son venuto bene, che ce la rifai?” è sempre dietro l’angolo.

17

Storia di Virginia romana

Sandro Botticelli

Storia di Virginia romana

Sapete qual è una delle peculiarità dell’arte che più mi affascina? Il dono della sintesi.

Con una sola tavola, Sandro Botticelli riesce a portare davanti ai nostri occhi la complessa storia narrata da Tito Livio di questa ragazza, Virginia, grazie alla quale, tra verità e leggenda, si arriverà alla caduta dei decemviri a Roma.

Il decemviro Appio Claudio venne rapito dalla bellezza della giovane Virginia che mai si lasciò corrompere da parole dolci e grandi doni; la sua purezza e fedeltà verso Icilio, un tribuno della plebe, nonché suo fidanzato, valeva più di ogni altra cosa.

Si sa, gli uomini di potere, avidi e senza scrupoli, non sanno accettare un no come risposta e il nostro decemviro non fa eccezione: entra così in gioco Marco Claudio, cliente di Appio, che approfittando della lontananza del padre della giovane, impegnato in guerra, cercò di rapirla in mezzo alla folla sostenendo che fosse una sua schiava, per sua sfortuna senza successo; esisteva un unico modo per risolvere la questione: andare in tribunale. E indovinate un po’ chi c’era a fare da giudice? Il nostro caro decemviro.

Chissà cosa avrà pensato Virginia in quel momento…

Il popolo si levò a gran voce chiedendo che ogni decisione venisse presa solo in presenza del padre della giovane, clemenza questa che Appio Claudio concesse (per paura di insurrezioni, non certo per bontà d’animo).

Virginio (questo era il nome del padre, non avevano molta fantasia in famiglia) ottenne dal proprio comandante il permesso di tornare a Roma a difendere la figlia, prima che lo stesso comandante fosse raggiunto dall’ordine di Appio Claudio di trattenerlo sul campo.

Il processo iniziò con le dichiarazioni del padre, ma Appio Claudio lo interruppe, sancendo la schiavitù della figlia.

«Mia figlia, Appio, l’ho promessa a Icilio e non a te, e l’ho allevata per le nozze, non per lo stupro. A te piace fare come le bestie e gli animali selvatici che si accoppiano a caso? Se questa gente lo permetterà, non lo so: ma spero che non lo permetteranno quelli che possiedono le armi!»

Nessun deus ex machina, nessuno aiuterà Virginio e la figlia, c’è solo un modo per evitare che la fanciulla diventi oggetto tra le mani di Appio: l’uomo riuscì ad ottenere di appartarsi pochi minuti con la figlia, per un’ultima volta, e affondò la lama dritta al cuore di Virginia.

«Così, figlia mia, io rivendico la tua libertà nell’unico modo a mia disposizione!»

Il tragico fatto fece sollevare il popolo e gli eserciti; le truppe occuparono l’Aventino e poi, seguite dal popolo, il Monte Sacro.

Infine i decemviri cedettero, rinunciarono al potere e fu ristabilita l’antica costituzione, compresi i tribuni della plebe. Claudio si uccise prima del giudizio.

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Sposalizio della Vergine

Raffaello Sanzio

Sposalizio della Vergine

L’episodio rappresentato è tratto dai vangeli apocrifi, quelli con cui la chiesa non ha proprio un rapporto idilliaco.

Comunque sia, siamo stati invitati a questo matrimonio, trionfo dell’amore in ogni sua forma; lo ritroviamo in san Giuseppe, che offre un anello a Maria e lo ritroviamo nei confronti dei rapporti geometrici ordinati, essenziali per Raffaello per esprimere la sua bellezza ideale.

Per la giovane Maria, che visse tutta la sua adolescenza nel tempio di Gerusalemme, era arrivato il momento del matrimonio; tanti erano i pretendenti, così il Sommo Sacerdote, per aiutare la giovane nella sua importante scelta, distribuì ad ogni giovane un ramo secco in attesa di un segno divino, di una fioritura.

Il ramo che fiorì fu quello di Giuseppe, il più anziano tra i ragazzi.

Tra gli sguardi delusi dei pretendenti sconfitti, spicca la rabbia di uno dei più giovani che non prende sicuramente bene il volere di Dio, accanendosi contro il suo ramo, spezzandolo.

Nella costruzione del tempio e dello spazio prospettico Raffaello utilizzò gli studi degli architetti del Quattrocento, Leon Battista Alberti tra tutti.

Notate le posizioni dei personaggi che sono particolarmente eleganti, come di tradizione per i quadri di Raffaello.

Inoltre, le vesti sono morbide, avvolgono i corpi modellandoli e ricadono con eleganti panneggi; i volti sono ideali, come in tutti i lavori di Raffaello, e quasi perfettamente ovali.

L’artista ha 21 anni quando realizza lo Sposalizio della Vergine, ma è già un artista maturo e ha un suo modo di vedere e realizzare le cose. Lui non imita la natura, lui la crea, ci mostra un modello perfetto che va oltre la realtà.

Per Raffaello, il compito dell’artista è “fare le cose non come le fa la natura ma come ella le dovrebbe fare”.

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Madonna col Bambino e santi, angeli e Federico da Montefeltro (Pala di San Bernardino)

Piero della Francesca

Madonna col Bambino e santi, angeli e Federico da Montefeltro (Pala di San Bernardino)

Questa pala è tanto grande quanto ricca di simboli ed artifici; venne commissionata da Federico da Montefeltro, signore di Urbino, per celebrare la nascita dell’erede maschio Guidubaldo nel 1472 e per commemorare la morte della moglie Battista Sforza, deceduta per le conseguenze del parto. Famoso poi è il suo autoritratto sempre di profilo, sempre lo stesso, visto che l’occhio destro lo aveva perduto; la particolarità qui sta nel naso, guardatelo bene: non è un errore di Piero, il duca si era fatto asportare per davvero un pezzo di naso, per poter sbirciare con l’unico occhio anche dall’altra parte.

Naso a parte, osservate la sua spada e le sue mani: hanno la stessa inclinazione del piccolo Gesù dormiente, sono due immagini legate tra loro: risulta evidente qui il richiamo alla nascita del suo erede.

Tenete ancora lo sguardo sul piccolo Gesù preso da un sonno così profondo che ci rimanda alla prefigurazione della sua morte, testimoniata anche da quel ramoscello pendete di corallo che disegna sul suo corpicino la ferita sanguinante del costato.

 

Ogawa Yoko, scrittrice giapponese, commenta così l’opera:

Qui è raffigurato il Silenzio: la Madonna e il Bambino, i Santi e anche l’unico uomo hanno labbra serrate, gli sguardi non s’incontrano.

Il silenzio riempie la scena. Senza contraddizione, diventa presente ciò che non c’è. Ma il silenzio non li isola. In un mondo inesprimibile, ognuno sta raccontando la propria storia.

Con l’espressione concentrata dei bambini ascoltano parole che noi non possiamo udire, in contemplazione.

L’edifico li avvolge, qui nulla può essere perso; custodiscono la verità nascosta della bellezza assoluta.

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Ritratto di gentildonna (La Muta)

Raffaello Sanzio

Ritratto di gentildonna (La Muta)

Due donne, due mondi opposti e due modi di vedere le cose. Muta e Fornarina, così vicine non sono mai state.

La Muta: un ritratto tanto complesso quanto enigmatico, infatti non sappiamo quasi nulla di lei, le teorie sono varie, ma la verità resta a noi sconosciuta.

Come Artrove, la Muta è stata una delle prime opere che abbiamo realizzato e, ingenuamente, l’ho posizionata proprio di fronte a me… non l’avessi mai fatto.

Ho cominciato a non sentirmi più a mio agio, c’era qualcosa che mi turbava e non capivo cosa.

Prendetemi pure per pazzo, ma dopo un po’ di tempo ho capito: era lei.

Quegli occhi, quello sguardo non immaginate il mondo che nasconde.

Una donna composta, sguardo fisso, non arretra, ha carattere, altro che Muta, ha le labbra serrate ma fa un casino che non vi sto a dire.

Dietro ad un velo di tristezza si cela una sorta di lontananza, ti osserva e mentre sostiene lo sguardo di te che la stai guardando, eccola che va altrove, chissà ora a cosa starà pensando…

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La Fornarina

Raffaello Sanzio

La Fornarina

Tutt’altro effetto provoca la visione della Fornarina;

nessuno sguardo pesante, nessun carattere luttuoso.

Il problema legato alla committenza si è presentato anche qui, anche se risolverlo è stato molto più semplice: come il Cristo morto di Mantegna non lasciò mai il suo studio, così la Fornarina era un lavoro personale, un omaggio per colei che, agli occhi dell’artista, aveva le sembianze di una Venere idealizzata e che divenne la sua musa ispiratrice.

Come per la muta, tutto ruota intorno agli occhi, quello sguardo così dolce e intriso di carnalità, di passione. Non c’è pesantezza, non c’è lontananza, lei è lì, presente, dinanzi a noi.

È lo sguardo della verità: fissatela bene e riuscirete a vedere e pensare la persona che amate più di ogni altra cosa al mondo: moglie, fidanzata o persona conosciuta e mai più rivista, dai meandri del nostro cuore emergono le sensazioni più recondite, quelle più vere.

Lei è senza veli, quelli nudi siamo noi.

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San Francesco in meditazione

Caravaggio

San Francesco in meditazione

Questa sezione è totalmente dedicata ad un solo artista: Caravaggio.

Il precursore di quella che è la figura del regista moderno, padrone della luce che crea e che si infrange sui corpi dei suoi personaggi, facendoli così emergere bruscamente dalle tenebre del dipinto. Emoziona, stordisce, ipnotizza, l’osservatore diventa una marionetta tra le sue pennellate, è l’artista che decide dove e cosa farci guardare.

Addentriamoci ora nelle 5 opere qui esposte, partendo da San Francesco.

A dominare la scena qui è una virtù: l’umiltà.

San Francesco è in ginocchio davanti a noi e Caravaggio vuole che sia la sua espressione assorta e sofferente a dominare su tutto, illuminandolo tra la guancia destra e le rughe della fronte.

Quel teschio che tiene tra le mani, quella croce spoglia, molto semplice come il suo animo sono testimoni del dialogo intimo che il santo sta avendo col Divino.

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San Giovanni Battista

Caravaggio

San Giovanni Battista

Il san Giovanni di Caravaggio è un santo atipico, anzi non è nemmeno un santo qui.

L’artista decide di mostrarci la dimensione umana di san Giovanni, colto in un momento di riposo, con i suoi attributi destinati ad un ruolo marginale, come la ciotola con la quale battezzò Cristo, gettata lì e priva di ogni valore sacro o il crocifisso ottenuto incrociando due canne, relegato ai margini della tela.

La classica mantella di peli di cammello con la quale siamo abituati a vedere il santo qui viene addirittura rimpiazzata da un mantello rosso che vediamo molto bene visto che la luce, molto forte, proviene da sinistra, illuminando il mantello e il petto del santo, con il volto in penombra.

Qui è l’uomo che va incontro alle peripezie dovute alla vita nel deserto, l’umanità qui cammina di pari passo con una forte drammaticità, un crudo realismo.

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Giuditta e Oloferne

Caravaggio

Giuditta e Oloferne

Giuditta è una giovane vedova ebrea pronta a tutto pur di difendere Betulia, la città in cui vive, presa d’assalto dalle truppe assire di Oloferne.

La giovane elabora un piano, semplice si, ma che richiede un grande coraggio:

con l’aiuto di Abra, ancella fidata, presentarsi al cospetto di Oloferne fingendo di sedurlo, fargli abbassare le difese e colpirlo, liberando così la sua gente.

Sembra quasi di assistere ad una scena di un film di Tarantino, i due non sono poi così tanto diversi.

Oloferne, con la gola ormai squarciata e la bocca aperta, libera il suo ultimo urlo muto prima di abbandonare per sempre il regno dei vivi.

Giuditta concentra nel polso tutta la forza che ha, lo sgozza tenendo saldamente tra le mani una ciocca di capelli del generale, mentre con l’altra affonda la lama; tende molto le braccia, quasi a volersi allontanare il più possibile dalla scena, un po’ per non farsi colpire dal fiotto di sangue sprigionato, un po’ per ribrezzo.

Abra, l’ancella, è lì al fianco della giovane, pronta a raccogliere la testa di Oloferne per depositarla nel sacco che tiene tra le mani.

Le ombre partono dal mantello rosso e avvolgono il disperato generale, lo stanno prendendo in consegna, è tempo di andare per il condottiero assiro.

Sempre le ombre cedono ora il posto alla luce che si infrange sul volto e sul corpo dell’eroina, sottolineando il leggero turbamento nello sguardo e, in un certo modo, la presenza su di lei di Dio, pronto ad assisterla.

Ma attenzione, riecco le ombre che assorbono la luce sul volto ormai consumato dall’età che avanza dell’ancella.

Ed ecco l’eterna contrapposizione tra giovinezza e vecchiaia, tra luce e ombra, tra vita e morte.

25

Narciso

Caravaggio

Narciso

 

Triste fu il destino del bel Narciso, maledetto dalla nascita a non potersi mai conoscere.

Bello come un Dio, fece strage di cuori, non ricambiando mai l’amor che riceveva. Nemmeno la ninfa Eco riuscì a far breccia nel suo cuore di pietra, costringendola a struggersi nel suo dolore fino a che di lei si persero le tracce, fino a ridursi in una flebile voce.

I lamenti di Eco scalfirono il cuore della dea Nemesi che decise quindi di punire il giovane, mandandolo incontro al suo triste destino: conoscersi.

Narciso si ritrova così dinanzi ad uno specchio d’acqua, la sete divenne presto un ricordo, l’immagine riflessa lo folgorò, chi era quel giovane così bello?

Resosi conto della natura impossibile del suo amore, il dolore fu troppo forte: dell’amor che aveva sempre negato divenne vittima anch’egli, uno spasimante come tutti gli altri, un rifiutato come tutti gli altri. Si accasciò a terra, il suo corpo sparì per lasciar posto ad un fiore bello come lui, che ancor oggi porta il suo nome.

Non c’è nessun elemento naturale, Narciso è solo qui dinanzi allo specchio d’acqua che sa di morte. L’immagine sembra capovolta in maniera perfetta, come una carta da gioco, anche se il volto di quell’immagine riflessa non è esattamente lo stesso, anzi… Narciso si specchia, nell’acqua c’è Caravaggio.

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Cena in Emmaus

Caravaggio

Cena in Emmaus

Secondo il Vangelo di Luca, dopo la morte di Cristo, due discepoli di Gesù che si trovavano nel villaggio di Emmaus, nei pressi di Gerusalemme, incontrarono un viandante e gli raccontarono i fatti dei giorni precedenti: la condanna di Gesù, la sua crocifissione, la morte sulla croce. I tre poi andarono a cena insieme.

Quando il viandante prese in mano il pane e lo benedisse, i due discepoli riconobbero in lui il loro maestro, Gesù, che in un attimo sparì.

Anche qui, come per il riflesso di Narciso, Caravaggio si ritrae nei panni di Cristo, illuminato da una luce che qui ha un significato allegorico, diventa simbolo del Divino.

Gesù è stanco, con gli occhi socchiusi, ha un’espressione che rispecchia in modo realistico il suo stato d’animo, in linea con i pochi colori del dipinto.

Tiziano Scarpa commenta così quest’ultima opera del nostro percorso:

Questo quadro è una forzatura; è quasi una bestemmia: costringe Gesù a restare visibile per sempre, mentre Lui, a Emmaus, non ha voluto mostrarsi per più di un istante, e solo agli occhi di due di loro, quelli che erano capaci di riconoscerlo da come benediceva il pane, mentre gli altri lì presenti non erano in grado di capire chi fosse quel tipo seduto di fronte a loro, che faceva strane manovre davanti a un panino.”

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